Patrizia Cantini Wine & Food Communication
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Il nuovo ristorante del Caffè del Verone

2/23/2023

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Ognuno di noi ha un luogo - o più luoghi - del cuore nella propria città. Nella mia - Firenze -  tra i luoghi che più amo c'è piazza della Santissima Annunziata. Sarà per quella perfezione architettonica imposta dal colonnato del Brunelleschi, sarà per la presenza di quello Spedale degli Innocenti che ci ricorda come già agli inizi del Quattrocento questa città ponesse attenzione e cura nei confronti dei meno fortunati, sarà per quelle belle fontane e quella statua equestre di Ferdinando I... Insomma, ci sono molte ragioni per amare piazza della Santissima Annunziata, e l'apertura, ormai vari anni fa, del Museo degli Innocenti che ci racconta il percorso di tanti bambini abbandonati che qui venivano raccolti, curati e ai quali poi veniva insegnato un mestiere ha dato alla piazza un motivo in più per essere visitata. Con il Museo è nato il Caffè del Verone, che ha donato la possibilità di avere una vista inedita sulla Cupola del Brunelleschi, come pure sulla Sinagoga e sui tanti tetti che circondano lo Spedale. Tutte le volte che ci salgo, non riesco a non pensare che questo Caffè regala l'emozione si essere sul tetto di uno dei capolavori del Brunelleschi (lo Spedale) e di ammirarne un altro, certamente più celebre (la Cupola, appunto, o come diciamo noi fiorentini, il Cupolone). 
Ecco, adesso il Caffè ha deciso di diventare anche ristorante, e per la cucina è stata scelta la chef Adriana Melani, che ha lavorato molti anni ad Artimino. Adriana ha scelto di proporre un menù prettamente toscano, con caposaldi come i pici e il peposo, piatti entrambi sempre più ricercati dai turisti e in modo particolare dagli americani. Siamo agli inizi, e c'è da credere che probabilmente qualche aggiustamento andrà fatto anche per andare incontro a una clientela locale che magari apprezzerebbe anche qualche piatto più moderno. Anche perché, nonostante gli oltre 6 secoli di storia dell'edificio, lo spazio del Caffè del Verone ha un forte afflato moderno e una sua naturale eleganza, ampliata dalla presenza delle vetrate che permettono di godere del panorama durante tutto l'anno.
Staremo a vedere come Adriana e la proprietà sceglieranno di muoversi e partire dai prossimi mesi che segnano l'inizio di una stagione turistica che tutti gli indicatori promettono estremamente intensa. Nel frattempo, devo dire che in una città con un'amministrazione comunale sempre molto generosa nell'elargire i permessi per dehor dove turisti e fiorentini pranzano spesso contornati da autobus e motorini, l'apertura di un ristorante situato "in alto" non può che essere accolta con entusiasmo. In alto, ripeto, e per giunta sul tetto dello Spedale degli Innocenti: quindi auguriamo ad Adriana e alla proprietà di vincere la sfida e di diventare il luogo del cuore di tanti, di tutti quelli che non si accontentano di un tavolino nel traffico ma che amano emozioni aeree. 
Le foto sono di Giorgio Magini 
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Cacio, pepe e kombucha

12/14/2021

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Nel periodo prenatalizio siamo tutti impegnati a pensare alle bottiglie di vino e a quelle di spumante e Champagne da portare in tavola per le feste, ed è giusto che sia così. Ma se per una volta allargassimo i nostri orizzonti e invece di cambiare bottiglia a ogni piatto riuscissimo ad abbinare a una delle portate qualcosa di diverso, magari una tisana o un tè? L’idea naturalmente non è mia, ma di Gabriele Bianchi, cameriere di sala del ristorante Essenziale di Firenze con alle spalle esperienze in locali stellati come l’Enoteca Pinchiorri e un premio come miglior cameriere d’Italia under 30 nel 2019. Personaggio televisivo in programmi come “Detto Fatto” e “Domani è domenica” (entrambi su Rai2), presenza abituale sul Gambero Rosso Chanel e speaker radiofonico su RTL, Gabriele è nato a Cecina e ha frequentato l’istituto alberghiero di Rosignano Solvay.
Naso e palato nel frattempo si erano già molto affinati nel ristorante dei genitori a Marina di Bibbona, nella cui cucina la madre già negli anni Duemila aveva iniziato a utilizzare fiori eduli. E sono proprio questi profumi primari che hanno indicato la strada a Gabriele, che è poi la strada delle tisane, degli infusi, dei tè e dei kombucha. Il kombucha è un’antichissima bevanda probabilmente nata in Manciuria e derivata dalle foglie di tè verde fermentate. Per la fermentazione viene utilizzata una coltura di batteri chiamata Scoby (Symbiotic Colony of Bacteria and Yeast) e la tecnica prevede prima di sciogliere zucchero in acqua bollente e quindi di aggiungere le foglie di tè. Una volta avvenuta l’infusione, le foglie vengono scartate e si aggiunge la colonia di batteri e quindi la bevanda viene lasciata raffreddare. Il kombucha può essere aromatizzata e poi si serve in un normale calice da vino. 

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Gabriele Bianchi
Gabriele ha appena pubblicato un libro, che si intitola “Cacio, pepe e kombucha” – pubblicato da Il Forchettiere di Marco Gemelli – che non solo racconta ci aiuta a entrare nel mondo dei tè e delle tisane, ma che soprattutto ci invita a provare una nuova frontiera del pairing, ossia dell’abbinamento cibo-bevanda. Nel volume Gabriele propone 10 ricette della cucina tradizionale italiana (ecco svelato il titolo) accostate ad altrettante bevande tra tè, tisane e infusi. Nessuno certamente intende sostituire il vino a tavola, ma nella sua esperienza in sala Gabriele ha scoperto che non sono pochi i clienti che chiedono di accompagnare i piatti non bevande non alcoliche, e allora perché non proporre un infuso caldo servito in un calice e non in tazza di porcellana?
Tra le ricette che Gabriele propone il mio occhio è stato subito catturato dal coniglio fritto abbinato a una tisana di finocchio e liquirizia. Pensateci un attimo: la freschezza del finocchio e della liquirizia saranno utili a ripulire la bocca dalla naturale untuosità del fritto. In qualche modo assomiglia al classico abbinamento tra tortellini in brodo e Lambrusco, la cui acidità fa da contraltare al brodo. Se in questo caso Gabriele ha giocato sul contrasto, in altre ricette è proprio un ingrediente in comune a creare il pairing, come nel tiramisù abbinato a un tè nero aromatizzato all’uvetta e caffè. I tonnarelli cacio e pepe che invece danno titolo al libro sono accompagnati da un kombucha allo zenzero.
Insomma, è un invito a provare e ad andare oltre quei confini naturali che sono insiti in tutti noi e che fanno parte della tradizione italiana che vuole il vino abbinato al cibo. Siamo stati così tanto in casa in questi ultimi due anni che aprire la porta per un viaggio virtuale tra profumi e aromi di erbe e spezie mi pare proprio una bella idea.
Bravo Gabriele, e ti auguro di tutto cuore di poter presto andare a “calpestare” (come scrivi tu) quelle piantagioni di tè e di spezie che sogni da anni. Io ho avuto la fortuna di esserci stata. Adesso tocca a te. In bocca al lupo! 

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Kombucha aromatizzato alle mandorle. www.patriziacantini.it
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Vino, anfore e mare

12/13/2021

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Anfore e vino sono ormai un binomio ben conosciuto anche in Italia e una delle principali aziende produttrici a livello internazionale, e la sola del nostro paese si trova all’Impruneta. Si chiama Artenova di Leonardo Parisi, ed è nata una trentina di anni fa. La fornace fino a 11 anni fa produceva i classici manufatti artistici in terracotta, ma Parisi intuì subito il futuro delle anfore da vino e convertì la produzione. E’ stata un’intuizione felice e oggi Artenova esporta le sue anfore dagli Stati Uniti al Sud Africa. Questi splendidi vasi vinari, che arrivano fino a una capacità di 800 litri, vengono prodotti interamente a mano, con argilla impastata con acqua. Il procedimento è molto lungo: un mese e mezzo per forgiare l’anfora, che poi ha bisogno di 2-3 settimane per seccare e quindi per passare nel forno per la necessaria cottura.
Le anfore, come tutti sanno, sono il più antico contenitore da vino e vennero usate dai primi produttori per poi arrivare ai greci e ai romani. La particolarità della terracotta è quella di non alterare le caratteristiche organolettiche del vitigno utilizzato e dunque di preservarne gli aromi primari. La tecnica si sta diffondendo sempre di più e nel nostro paese sono stati i friulani a utilizzarla per primi. Oggi possiamo trovare anfore in molte cantine e uno dei maggiori sostenitori di questa tecnologia è Antonio Arrighi, produttore all’isola d’Elba, nell’omonima azienda di Porto Azzurro.
Arrighi e Parisi collaborano ormai da anni e proprio le anfore che nascono all’Impruneta sono protagoniste di quello che doveva essere soltanto un esperimento e che poi invece si è trasformato in un vino vero e proprio che viene prodotto ogni anno in un numero estremamente limitato di bottiglie. Il suo nome è Nesos, e la sua storia è estremamente affascinante. 

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Leonardo Parisi e Antonio Arrighi
Qualche anno fa l’Associazione Italiana Sommelier dell’Isola d’Elba organizzò un convegno al quale invitò il professor Attilio Scienza, che decise di parlare dei vini di Chio, molto apprezzati in epoca greco-romana. Si trattava di vini dolci, che riuscivano a viaggiare e venivano portati con le navi fino a Marsiglia. La particolarità di questi vini era che le uve venivano immerse nell’acqua di mare prima di essere vinificate. Il sale attacca la pruina che avvolge gli acini, rendendo poi più rapido il loro appassimento al sole. Dunque i greci avevano inventano questa tecnica per poter accelerare i tempi di appassimento delle uve e una maggiore estrazione di aromi dalle bucce. Antonio Arrighi, presente al convegno, restò talmente affascinato dal racconto che decise di provare, e nel 2018 ottenne dalla Capitaneria di Porto il permesso di immergere le uve a 10 metri di profondità per 5 giorni in piccole nasse di vimini. Il progetto di Arrighi è stato seguito sia da Scienza che da Angela Zinnai e Francesca Venturi del corso di Viticoltura ed Enologia dell’Università di Pisa. Nesos, prodotto in sole 40 bottiglie, venne presentato alla stampa nel 2019, e io ebbi la fortuna di poter assistere alla presentazione e degustare il vino.
Il risvolto mediatico ottenuto da Nesos è stato talmente grande da spingere Arrighi a continuare a produrlo e con la vendemmia 2021 la produzione dovrebbe aggirarsi intorno alle 300 bottiglie che vengono vendute a 200 euro ciascuna. Il vino è prodotto con sole uve Ansonica, che dopo il primo esperimento vengono immerse in mare solo per 3 giorni, perché il sale attacca molto velocemente la pruina. Una volta recuperate dalle acque del mare di Porto Azzurro, le uve non vengono asciugare e sono lasciate ad appassire al sole distese su stuoie. Si tratta di un appassimento breve per ottenere non un vino dolce come quello di Chio ma un vino secco. Dopo l’appassimento gli acini, private dei raspi, vengono pigiati e quindi immessi nelle anfore di Artenova e lasciati con le bucce fino a primavera. Il vino viene quindi svinato e regolarmente imbottigliato.

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Nesos
Proprio nella fornace di Artenova si è svolta una degustazione dei vini di Arrighi vinificati in parte o del tutto in anfora, e insieme a Nesos abbiamo potuto assaggiare Valerius 2020, anche questo un Ansonica al 100% prodotto in 2000 bottiglie, con un bel profumo fresco e floreale e con un palato sapido e piacevolmente acidulo. Hermia 2020 è invece un Viognier in purezza, per il quale Arrighi ha scelto una lunga macerazione di sei mesi in anfore da 800 litri. Vino profumatissimo, con penetranti sentori di agrumi e di albicocca, al palato è fresco e piacevole e assolutamente aderente al vitigno. Anche V.I.P. è un Viogner in purezza, ma stavolta si tratta di un vino vinificato in acciaio e poi passato in barrique non nuove e provenienti dalla Borgogna, e dunque dove ha riposato lo Chardonnay. Poi abbiamo degustato Tresse 2018, il cui nome fa riferimento ai tre vitigni che lo compongono: Sangiovese, Syrah e Sagrantino (3 S appunto). Il vino viene prima vinificato in acciaio per poi passare in anfora senza le bucce. I tre vitigni naturalmente vengono vinificati e affinati separatamente e poi uniti per tornare in anfora per altri 18 mesi. Insieme a quelli di Arrighi poi la degustazione ha presentato altri vini sempre prodotti in anfore di Artenova, tra i quali vale la pena di segnalare Alberata 2019 della Tenuta Fontana di Pietrelcino, in provincia di Benevento. Alberata è un Asprinio di Aversa, fermentato e affinato in anfora. Al colore arancio naturale tipico del vitigno Asprinio il vino accompagnava un naso nel quale dominavano le note calde di pera, nocciola e arachidi. Molto piacevole in bocca, con note acidule di mandarino, una vera sorpresa.
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Un'anfora da 800 litri ad asciugare prima di passare nella fornace.
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Le 20 vendemmie di Pagani De Marchi

12/9/2021

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L'azienda Pagani De Marchi a Casale Marittimo
Venti vendemmie possono sembrare poche per un’azienda toscana; ma se la cantina si trova a Casale Marittimo in provincia di Pisa allora venti vendemmie non appaiono più tanto poche. Sono stata invitata a partecipare a una degustazione per festeggiare la ventesima vendemmia dell’azienda Pagani de Marchi, la cui storia è strettamente legata a quella del bellissimo borgo di Casale Marittimo.
Casale Marittimo già negli anni Settanta era molto amato dai turisti stranieri e non pochi furono quelli che acquistarono una casa in paese o un casale nelle vicinanze del borgo per passarvi le vacanze. Tra questi arrivarono anche i Pagani De Marchi, nativi di Lugano.  Pia ed Enrico si erano evidentemente innamorati del luogo e di quella campagna straordinaria che circonda Casale sia in direzione di Bibbona e del mare che in quella di Volterra e dell’interno. Prima che Bolgheri diventasse un fenomeno di massa, Casale aveva già assistito all’approdo di turisti che si aggiravano tra i suoi vicoli che si inerpicano sulla collina. Se non conoscete Casale vi posso assicurare che vale veramente la pena di andarlo a visitare, e non a caso è uno dei borghi consigliati dal FAI. 
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I vigneti e alle spalle Casale Marittimo
Dunque i Pagani De Marchi acquistarono un podere con la classica casa colonica al centro di coltivazioni di cereali, perché la vite non era ancora molto presente nell’area. L’idea di iniziare a produrre vino nacque assai più tardi, quando Pia ed Enrico si innamorarono dei vini di Bolgheri e conobbero Michele Satta, uno dei produttori più significativi del bolgherese. Se a Casale ancora negli anni Novanta i vigneti non erano certo di casa, è tuttavia vero che alcuni ritrovamenti di epoca etrusca all’interno della proprietà aziendale hanno ampiamente dimostrato come la viticoltura più un tempo doveva essere fiorente. Nella vicina Montescudaio invece la vite aveva iniziato a progredire tanto da dare origine (nel 1999) a una denominazione di origine. I Pagani De Marchi sono dunque da considerare dei pionieri della vitivinicoltura di questa zona della Toscana che si affaccia sul Tirreno tra Capraia e l’Elba.
Oggi l’azienda è condotta da Matteo, figlio di Pia e di Enrico, che si avvale della consulenza dell’enologo Attilio Pagli.  La degustazione alla quale sono stata invitata si è tenuta on line e a noi giornalisti qualche giorno prima sono stati inviati i vini, mentre la celebre Trattoria Da Burde di Firenze ha pensato all’invio dei piatti che andavano a comporre un menù completo da abbinare ai vini. 

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Pia e Matteo Paganni De Marchi
I vitigni che fin dall’inizio sono stati impiantati dalla famiglia Pagani De Marchi sono Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon, ai quali poi è andato ad aggiungersi il Vermentino, vitigno che sta vivendo una vera e propria esplosione di notorietà e di consensi. I Pagani De Marchi dunque avevano in mente vini dal taglio bordolese, un po’ come avveniva a Bolgheri, ma non hanno voluto dimenticare il Sangiovese, che rientra negli uvaggi come in quello del Montaleo (70% Sangiovese, 15% Merlot, 15% Cabernet Sauvignon) che è l’unico vino a Doc Montescudaio della cantina, mentre gli altri sono tutti a Igt. Sangiovese in purezza è invece Principe Guerriero, che nasce dalla selezione delle migliori uve aziendali che dopo la vinificazione passa 12 mesi in tonneaux e altrettanti in bottiglia per il necessario affinamento. Dal 2009 l’azienda ha deciso di convertirsi al biologico e da qualche vendemmia sta sperimentando anche la vinificazione in anfora cruda, ossia senza alcun rivestimento. Il vino che viene vinificato in anfora da 8 ettolitri è un Cabernet Sauvignon in purezza e si chiama Casa Nocera. Ne vengono prodotte soltanto 500 bottiglie numerate e il vino è molto elegante e assai piacevole alla degustazione. Chiudono la galleria dei vini prodotti l’Olmata (20% Sangiovese, 40% Merlot e 40% Cabernet), il Casa Nocera (Merlot in purezza) e il Blumea, il Vermentino introdotto nel 2009.
La degustazione dei vini è stata interessante e sia il Sangiovese che il Cabernet Sauvignon mi hanno colpita sia per la bella espressione che per l’eleganza. Ma mi ha colpita ancora di più la presentazione pacata da parte di Matteo e di sua madre Pia. Una bella famiglia, che esprime in maniera naturale il grande amore per la propria terra.
E allora buon ventesimo compleanno ai Pagani De Marchi. 

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Tutti i vini e la grappa della cantina.
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Modus Primo, il nuovo vino di Ruffino

11/17/2021

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​La nascita di un nuovo vino è sempre una festa, e più che mai oggi rappresenta la vitalità di un’azienda e la sua voglia di dare segnali positivi al mondo. Il nuovo nato si chiama Modus Primo ed è prodotto da Ruffino nella tenuta toscana di Poggio Casciano. Poggio Casciano si trova nel comune di Bagno a Ripoli, e i suoi 40 ettari di vigna sono stati ormai da tempo convertiti al biologico. Tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila è stata condotta un’accurata opera di zonazione dei terreni aziendali, che ha evidenziato la presenza di ben 43 tipi diversi di suoli. La scelta e l’impianto dei vitigni dunque è stato fatto dopo che la zonazione aveva dato precise indicazioni sulle varietà che meglio si adattavano alle caratteristiche pedologiche dei terreni. Modus Primo nasce dall’unione di tre diversi vitigni coltivati in altrettanti vigneti: Cabernet Sauvignon (39%), Merlot (36%) e Sangiovese (25%). L’azienda ha dunque voluto utilizzare, in percentuali diverse, gli stessi vitigni che nel 1997 avevano dato vita a Modus, il primo super tuscan di Poggio Casciano, e Modus Primo intende sottolineare la continuità con questo, anche se con un carattere più internazionale. I tre vitigni vengono affinati separatamente in barrique nuove per 18 mesi, riservando al Sangiovese legni dalla tostatura dolce che meglio si adattano al carattere del vitigno.
La prima vendemmia è la 2018, ed è prodotta in 14.000 bottiglie. La nuova etichetta è stata presentata nella Locanda Le Tre Rane di Poggio Casciano dal presidente di Ruffino Sandro Sartor, dall’enologo Gabriele Tacconi e dall’agronomo Lorena Troccoli. La cucina delle Tre Rane è stata affidata allo chef Stefano Frassineti, che nella sua lunga esperienza alla Rufina prima e a Pontassieve poi ha saputo “scovare” piccole e piccolissime produzioni – dalle farine ai salumi, dalle carni ai legumi – che rendono ogni suo piatto un’esperienza unica. Poggio Casciano è anche sede di un esclusivo agriresort dove gli ospiti possono vivere a pieno quella che l’azienda chiama la Ruffino Experience e che il presidente Sartor definisce “vivere con gusto”. 
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Upperhand, il gin a tutto pasto

7/24/2021

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La bottiglia di Upperhand
Questa storia coinvolge tre paesi: l’Italia, la Scozia e l’Irlanda, e il suo risultato è un gin “a tutto pasto”. Ma cominciamo dall’inizio. Lei si chiama Claudia Gamberucci, ed è nata a Stirling da madre scozzese e padre toscano, ma ha poi vissuto con la famiglia a San Gimignano. Lui si chiama Alberto Borin ed è di San Donà di Piave. Claudia da anni lavora nel mondo del vino ed è consulente export per alcune importanti aziende italiane. Alberto invece era un judoka e una volta terminata la carriera agonistica lavorava in Svizzera come allenatore. I due si sono incontrati in Italia, si sono innamorati e si sono sposati. Il matrimonio ha dato vita ad Alexander e anche a un sogno comune: quello di produrre un gin proprio, con caratteristiche particolari che lo rendessero riconoscibile e adatto a essere servito a tutto pasto, naturalmente sotto forma di cocktail.
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Claudia Gamberucci e Alberto Borin
Ma perché un gin? Perché la nonna di Claudia, in Scozia, per arrotondare il bilancio familiare produceva un distillato di patate aromatizzato con ginepro e aneto. Un gin, insomma. L’aroma di quel gin era sempre rimasto nelle narici di Claudia e da queste è passato in quelle di Alberto, da sempre appassionato di whisky e di distillati. Per realizzare il loro sogno nel 2019 i due si sono trasferiti in Scozia, ad Alva, nelle Lowlands centrali. E in Scozia si sono messi a cercare la distilleria adatta per realizzare il loro progetto. Ma non l’hanno trovata. Claudia racconta che quello che le distillerie contattate le offrivano era un gin come tanti altri, quelli che non sono in grado di fare la differenza e quindi neppure capaci di costruirsi una nicchia di mercato. Poi, alla Prowein di Dusseldorf Claudia ha finalmente conosciuto la persona giusta, il proprietario di una piccola distilleria di Tipperary, in Irlanda.  
Ed è proprio in Irlanda che è nato Upperhand, il gin di Claudia e Alberto che al classico ginepro, e all’aneto della nonna, aggiunge altre due botaniche tipicamente italiane: basilico e limone. Quattro botaniche per un gin volutamente tricolore e che dell’italianità ha fatto la sua bandiera per rendersi riconoscibile e per invogliare i consumatori agli abbinamenti con il cibo. Noi italiani infatti, insieme ai francesi, siamo i campioni mondiali in fatto di abbinamento vino-cibo e all’estero ci conoscono anche per questo. Upperhand va dunque a mettersi in una nicchia di mercato ancora poco conosciuta, e trova così una individualità che gli permette di distinguersi in un universo – quello del gin – dominato dai grandi marchi. 
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Il gin tonic con l'ice chunk
Per questo la comunicazione di Upperhand si basa sull’incontro tra il mondo dell’alta cucina e quello della mixology, e gli abbinamenti funzionano alla perfezione. Sono stata invitata nella terrazza dell’hotel fiorentino Le Scalette per una serata curata dallo chef Salvo Pellegriti e dal bartender Livio Carubba. Salvo ha preparato quattro piatti, per ognuno dei quali ha utilizzato una delle quattro botaniche di Upperhand. Livio ha pensato al drink in abbinamento. Abbiamo cominciato con un carpaccio di ombrina con cialda al nero di seppia, mela verde e granita di aneto e gin. Il piatto è stato accompagnato da Gin Morning Baby, una rivisitazione del Red Snapper, con acqua di pomodoro, sale, bitter al sedano e gin. Poi abbiamo gustato un risotto al limone di mare con limone alla brace e sedano croccante accompagnato da un classico Gin Tonic. Il Gin Tonic merita una nota a parte. Per realizzare il drink Livio ha scelto un’acqua tonica a basso contenuto zuccherino, vista la grande aromaticità del gin, e ha scelto un bicchiere tumbler alto che conteneva alla perfezione l’ice chunk, un parallelepipedo di ghiaccio perfettamente cristallino prodotto da un’azienda di Pistoia che ha retto alle alte temperature fiorentine senza alcun problema. Il Gin Tonic ha così mantenuto la freschezza fino alla fine, e la sua piacevolezza è rimasta intatta fino all’ultimo goccio. Il terzo piatto servito è stato un trancio di pesce serra cotto alla coque accompagnato da taccole e susine confit e servito con panna acida al ginepro. Il drink di accompagnamento stavolta è stato un Gimlet, che Livio racconta essere uno dei primi cocktail al mondo, nato a fine Ottocento e da lui realizzato con con Upperhand, spremuta di arancia e estratto di scorze di agrumi. Infine, il dessert di Salvo Pellegriti è stato un tripudio di pomodoro, fragole e basilico abbinato a un Basjito, ossia un Mojito con il gin al posto del rum e aromatizzato al basilico. 
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Il bartender Livio Carubba
Il packaging di Upperhand è molto curato ed è stato sviluppato da un’agenzia londinese. L’idea parte dal numero 11, che è una sorta di numero porta fortuna per Claudia e Alberto, e allora l’etichetta si ispira all’undicesimo arcano maggiore dei Tarocchi, ossia alla carta della Forza, rappresentata da una donna che doma un leone. Il colore del vetro della bottiglia è azzurro, un azzurro molto simile a quello di Tiffany e a quello di Acqua dell’Elba. Il nome, infine, deriva dall’espressione inglese “have the upper hand”, ossia avere un vantaggio, che viene spesso usata in ambito sportivo.
Upperhand viene distribuito attualmente in una decina di paesi, Italia compresa. Per ora la produzione è limitata a qualche decina di migliaia di bottiglie, ma Claudia e Alberto sono ambiziosi e puntano alle 150.000. Secondo me ce la faranno perché il loro “vantaggio” è quello di avere una passione in comune, e di crederci fino in fondo. Nel frattempo hanno certamente accorciato la strada per Tipperary, e chi ha qualche anno come me può capire a cosa mi riferisco (John McCormack, “It’s a long way to Tipperary”).

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Il carpaccio di ombrina di Salvo Pellegriti
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Riapre Villa Vittoria, giardino cult dell'estate fiorentina

6/18/2021

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Martedì 22 giugno riapre Villa Vittoria, uno dei luoghi all’aperto più affascinanti di questa prossima estate fiorentina. Tra oleandri, banani e gli alberi di alto fusto del giardino – ai quali si accede da una scalinata che occhieggia quella di Caltagirone in Sicilia - Villa Vittoria offre un angolo verde di charme a due passi dalla stazione di Santa Maria Novella e dalla Fortezza da Basso. Siamo nel parco di Firenze Fiera, con ingresso da Viale Strozzi 2, e la villa – che prende il nome da una nobildonna che vi ha abitato fino a non troppi decenni fa – d’estate si trasforma in un locale all’aperto dove andare per ascoltare buona musica, bere un drink o un calice di buon vino e chiacchierare in serenità. Ecco, la serenità forse è la parola d’ordine per le prossime notti estive; uno stato d’animo necessario dopo il tunnel attraverso il quale siamo tutti passati.
Ma oltre alla musica e agli ottimi drink preparati dallo staff del bar Saint Germain, quest’anno Villa Vittoria vanta una collaborazione d’eccellenza, perché la ristorazione è stata affidata a un locale molto noto e molto amato in città: il Fishing Lab. Le possibilità offerte dal Fishing Lab sono tre: mangiare à la carte, ordinare il buffet servito e, infine, il Take Hawaii, che non è un refuso ma un modo più aggraziato di nominare il servizio di asporto.
Il tutto condito da musica dal vivo o non (sotto la direzione artistica di Alessandro Dotti), da appuntamenti culturali e presentazioni di libri, il primo dei quali sarà “Solo” di Riccardo Nencini, romanzo incentrato sulla figura di Giacomo Matteotti, il prossimo 5 luglio. 
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Donne in quota

4/22/2021

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Susanna Grassi, Serena Coccia, Sophie Conte e Sofia Ruhne
Per l’anagrafe sono Susanna, Serena, Sophie e Sofia, ma preferiscono farsi chiamare “donne in quota”. Perché? Perché sono quattro produttrici di Chianti Classico nei comuni di Greve e Castellina in Chianti e sono accomunate dal fatto che tutte possiedono vigne alte, tra i 450 e i 680 metri sopra il livello del mare. L’attenzione nei confronti dei vini che nascono da vigne alte sta crescendo moltissimo negli ultimi anni, perché il cambiamento climatico le sta favorendo in maniera importante. Se in passato le uve di questi vigneti avevano spesso problemi a giungere a perfetta maturazione, oggi queste stesse uve soffrono meno di stress idrico, arrivano facilmente a maturazione e non rischiamo di essere “cotte” dal sole. Insomma, se già vari produttori italiani hanno iniziato a spostare le proprie vigne più in alto, queste quattro signore non ne hanno avuto bisogno e i loro vigneti, fino a non troppi anni fa considerati di scarso interesse, oggi vengono guardati con rispetto e forse anche con un po’ di invidia. Per altro, va sottolineato che i vini che nascono da vigneti alti normalmente hanno grandi profumi perché le escursioni termiche tra giorno e notte nel periodo estivo – quando l’uva è sulle piante a maturare – favoriscono la concentrazione degli aromi primari. Sono dunque in generale vini molto fini ed eleganti, magari non di grandissimo corpo ma senza dubbio dal forte carattere. 
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Le quattro produttrici hanno deciso di presentarsi insieme alla stampa specializzata, in maniera conviviale e in un clima rilassato e sorridente, in altre parole “femminile”. A Lamole, uno dei punti più alti del Chianti Classico, ognuna di loro ha messo in degustazione due vini e ha raccontato la storia della propria azienda.
Susanna Grassi, dell’azienda I Fabbri di Lamole, ha lasciato il suo lavoro nel settore tessile nel 2000 per riprendere in mano l’azienda di famiglia, che per 30 anni era stata affittata perché i genitori si erano trasferiti all’estero. Oggi Susanna produce 35.000 bottiglie da 6,5 ettari di vigna, i più alti dei quali arrivano a 680 metri. Ci ha fatto degustare il Chianti Classico 2018 Terra di Lamole e il Chianti Classico Riserva 2016, che nascono dai vigneti più bassi, a soli – si fa per dire 450 metri – ma anche dalle vigne più vecchi.
Serena Coccia invece affianca il padre Paolo nella conduzione del Podere Castellinuzza, ancora a Lamole. Il podere è lo stesso che il suo bisnonno e il suo nonno lavoravano in regime di mezzadria, fino a quando questa venne abolita. Il nonno lo comprò e riuscì anche a ingrandirlo con l’acquisto di terreni adiacenti. Oggi l’azienda ha 3 ettari di vigneto quasi tutto posizionato a 550 metri ma con una vigna che si trova a 600. Tutte vigne vecchie, con almeno 50 anni di età e addirittura alcuni filari ad alberello, posti su terrazzamenti, risalgono a prima della fillossera e quindi con tutta probabilità sono a piede franco. Serena ha presentato il Chianti Classico 2018 e il Chianti Classico Riserva 2016 Vigne Vecchie.

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Uno scorcio di Lamole
Sofia Ruhne, di Terreno a Greve in Chianti, è nata in Svezia ma da 10 anni ha deciso di prendere in mano le redini dell’azienda che la sua famiglia ha acquistato nel 1988, arricchendone la produzione e convertendola al biologico e anche aprendo un ristorante. I vigneti di Terreni si trovano tutti tra i 350 e i 400 metri, ma Sofia nel 2015 ha deciso di acquistare una vigna a Montefioralle che si trova a 500 metri e dove si vendemmia non prima del 15 di ottobre. Sofia ha messo in degustazione il Chianti Classico Riserva 2017 Sillano e il Chianti Classico 2016 ASofia Vigne Vecchie.
Sophie Conte (italianissima nonostante il nome francese) produce invece alla Fattoria di Tregole, nel comune di Castellina in Chianti, nell’azienda che i genitori hanno acquistato negli anni Novanta. Tregole è un borgo delizioso e la fattoria offre anche ospitalità e ristorazione. Le vigne si estendono per 5,5 ettari tra i 520 e i 600 metri di quota, e in una vecchia vigna piantata nel 1952 si trovano Sangiovese e Cabernet, ossia uno tra i primi Cabernet impiantati nel territorio del Chianti Classico. Sophie ha presentato il Chianti Classico 2017 e il Chianti Classico Riserva 2017.
L’incontro con queste quattro signore mi ha fatto tornare in mente la storia della collina di Cartizze, i cui vigneti sono talmente in pendenza che in passato non li voleva nessuno. E allora accadeva che i padri, nel redigere testamento, lasciavano ai figli maschi le vigne più facili, dove oggi si produce il Prosecco Superiore Docg, mentre quelle sulla collina di Cartizze venivano destinati alle figlie femmine, che poi con il passare degli anni si sono trovate tra le mani un tesoro.
Dunque le quattro S – ossia Susanna, Serena, Sofia e Sophie – il tesoro forse lo hanno già in mano. 

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La Pettegola Limited Edition 2021

2/16/2021

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La pettegola è un uccello che ama l’acqua, e per questo lo possiamo trovare nelle zone umide, vicino a stagni, paludi e mare. Può essere migratore e stanziale, e il suo becco lungo gli permette di pescare piccoli pesci per nutrirsi.
Ma la pettegola – nell’immaginario collettivo – è prima di tutto una persona che “spettegola”, appunto. Infine, La Pettegola è anche il nome di un vino: il Vermentino di casa Banfi che non a caso nasce in Maremma, ossia in una delle zone d’elezione dell’uccello che gli ha dato il nome.
Con un nome del genere si potrebbe certamente giocare e l’equivoco potrebbe durare all’infinito, e non a caso dal 2012, suo anno di nascita, La Pettegola ha fatto molto parlare di sé. Perché è un ottimo Vermentino e perché si abbina a tante occasioni, ma anche perché da quattro anni la celebre cantina con sede a Montalcino ha deciso di farne delle edizioni limitate con etichetta disegnata da artisti.
Sulle 300.000 bottiglie prodotte ogni anno la Limited Edition ne copre solo 15.000, ed è partita la caccia a quella appena uscita (annata 2020) che è stata affidata alle mani e all’estro di Elena Salmistraro, giovane designer laureata al Politecnico di Milano che vanta collaborazioni importanti e già numerosi premi.
Elena Salmistraro si è cimentata nella ideazione e realizzazione di un’etichetta per la prima volta, e la sua idea creativa è brillante e divertente. Una pettegola (l’uccello, s’intende) molto ciarliera racconta una storia a una fanciulla che pare sconcertata da quanto ascoltato, tanto da restarne immobile e con le guance arrossate. Chissà cosa le starà raccontando la pettegola.
E’ un’etichetta molto bella, arricchita da inedite soluzioni tattili che la rendono diversa a seconda che si tocchi le parti lucide, quelle rigate o quelle lisce. I colori sono allegri ma non accesi, e fanno venire voglia d’estate, di mare e di Maremma. Il sole splende e irradia pettegola e ragazza e ci porta in una terra bella e ricca, dallo spirito vivace e colorito, ricca di vini e di acque.
E mentre la guardo, girandola da destra a sinistra seguendo il flusso del ciarlare della pettegola, continuo a chiedermi: “Ma cosa le starà dicendo si così sconvolgente”?

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Genuino.Zero compie un anno

11/12/2020

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Genuino Zero, la start up di Chiara Brandi vincitrice della call della Murate Idea Park, compie un anno, e al suo attivo ha 3.000 iscritti che ordinano la propria spesa con prodotti che provengono da 30 aziende agricole. La distanza media delle aziende dalla città di Firenze è di 33 chilometri, mentre l'età media dei produttori è 40 anni. Oltre al servizio di spesa, Genuino Zero offre - compatibilmente con le restrizioni in corso a causa della pandemia da Covid - corsi, laboratori e visite nelle aziende agricole che fanno parte del network. La fondatrice dunque intende non soltanto vendere prodotti genuini, ma anche educare al consumo intelligente e a minor impatto ambientale. 
Nel prossimo futuro di Genuino Zero ci sarà una mobilità sempre più sostenibile e anche l'idea di promuovere una rete a livello nazionale che unisca tutte le realtà che propongono soluzioni alternative di distribuzione. Attualmente Genuino Zero copre con consegne a domicilio i comuni di Firenze, Fiesole, Settignano, Bagno a Ripoli, Scandicci, Galluzzo, Lastra a Signa, Signa, Campi, Calenzano e Prato, più tutta l'area di Valdarno e Valdisieve. Sono inoltre allo studio anche partnership a supporto dei ristoranti del territorio.
www.genuinopuntozero.it 

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