Ma quale azienda può permettersi di presentare a un nutrito gruppo di giornalisti specializzati una verticale che a partire da quella del 2017 presenta le annate 2016, 2010, 2006, 1998, 1995, 1988, 1981, 1977, 1974, 1969 e, appunto, la 1930?
E accade altrettanto spesso che queste piccole (da un punto di vista di estensione territoriale, s’intende) denominazioni si rivelino dei veri e propri gioielli.
Carmignano è così, e ben l’aveva capito il granduca Cosimo III, che nel 1716 emanò un editto che può a ragione essere considerato antesignano delle moderne denominazioni di origine. Nell’editto il granduca mediceo elencava solo 4 vini, che oggi corrispondono al Carmignano, al Chianti Classico, al Chianti Rufina e al Valdarno di Sopra. Un altro granduca, Pietro Leopoldo di Lorena, nel 1773 invece nella “Relazione sul Governo della Toscana” pose il Carmignano al vertice qualitativo della produzione del suo regno.
Non a caso nelle dodici annate degustate era assai facile individuare un filo conduttore che corrisponde appunto a quella coerenza produttiva che solo le grandi aziende possono vantare. E in queste dodici annate il Sangiovese ha dato delle prove altissime di longevità (indimenticabile per me il 1981) che sono culminate appunto nel 1930.
Ma cosa dà a un vino una tale capacità di invecchiare? L’acidità, prima di tutto. E il Sangiovese è un vitigno che possiede per sua natura una buona dose di acidità, ma che non si esprime nella stessa maniera in ogni terreno e in ogni condizione geografica. Evidentemente Carmignano è un piccolo paradiso per il Sangiovese, che nel bicchiere dei 12 vini degustati ha anche dimostrato una rara eleganza e una bellissima ricchezza aromatica.
Dobbiamo essere grati alla famiglia Contini Bonaccossi che non si è lasciata né sviare né tanto meno intimorire dalle mode (e anche a volte da noi giornalisti) e che in maniera silenziosa e senza inutili proclami ha portato avanti la causa del Carmignano e lo ha reso l’emblema di una Toscana colta, bella e inimitabile.
Grazie a Benedetta, a Beatrice, a Serena, a Filippo e a Giovanni Contini Bonaccossi, e grazie all’enologo Franco Bernabei.