Patrizia Cantini Wine & Food Communication
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Le spezie del Kerala

4/22/2012

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Il Kerala non sta godendo di buona fama in questi giorni qui in Italia. I nostri due soldati stanno forse scontando il fatto di essere italiani come Sonia Gandhi, ma il Kerala resta una regione splendida, ricca di bellezze naturalistiche da vedere. La stagione turistica va da dicembre a febbraio, e le backwaters, ossia il dedalo di lagune, canali, fiume e risaie  alle spalle della costa del Kerala, in quei mesi si riempiono di house-boat che portano i turisti lungo questo paradiso fatto di acque e di piccole strisce di terra dove vivono centinaia di indiani. Si fa la spesa direttamente con la house-boat, attraccando ai piccoli negozi di pesce oppure servendosi direttamente dalle barche dei pescatori. I tiger-prowns, i gamberi tigre, sono una delle specialità delle back waters che ne sono particolarmente ricchi, e vengono prima ricoperti di spezie piccanti e poi cotti alla brace.
Sono andata in Kerala nel maggio del 2006, per uno dei miei articoli, e la mia meta erano le piantagioni di spezie e di tè sulle Cardamom Hills, con al centro la cittadina di Kumily. Armata di autista e di guida mi sono arrampicata sulle strade che partono da Trivandrum, la città più importante sulla costa sud del Kerala e mi sono immersa in colline profumate suddivise in piccole e piccolissime parcelle: le piantagioni di spezie, appunto. Qui non ci troviamo di fronte a piantagioni industriali, ma a piccoli fazzoletti di terra che danno da mangiare a intere famiglie. In mezzo ettaro di terra si coltiva di tutto: la noce moscata e il pepe, la senape e il cumino, i chiodi di garofano e la vaniglia, lo zafferano e la cannella. La gente del posto vive di spezie e con queste si cura. Thampan, che ha un negozio fornitissimo, mi ha spiegato che un'aggiunta di zafferano nel latte aiuta la circolazione sanguigna, che il coriandolo fa bene ai diabetici, che la noce moscata è ottima per lo stomaco, che la curcuma mischiata alla polvere di sandalo rosso e all'acqua di rose diventa un'ottima maschera di pulizia per il viso. Insomma, le spezie sono medicamentose oltre che la base della cucina del Kerala, sempre profumatissima e anche molto piccante. Poco più in alto si aprono gli incredibili panorami delle piantagioni del tè, con quelle piccole foglie verdi che fremono a ogni alito di vento. Uno scenario fantastico, che non si dimentica.
Non sono luoghi turistici questi, perché i visitatori normalmente si fermano sulle spiagge, a godersi quegli incredibili tramonti che solo l'Oceano Indiano sa regalare. Tramonti brevi, nei quali sembra che il sole abbia fretta di gettarsi in mare per rinfrescarsi. Poi si accendono le luci dei ristoranti, dalle cui cucine si sprigionano profumi intensi che raggiungono la spiaggia convincendo anche gli ultimi ammiratori del tramonto a mettersi al tavolo e a ordinare i tanti pesci e crostacei offerti dall'oceano.
Il mercato di Trivandrum è un'apoteosi di colori e profumi, e maggio è la stagione del mango, di cui qui si trovano venti diverse varietà delle quali la Alfonsa è considerata la più pregiata. E poi le banane rosse, i succulenti ananas e le immancabili curry leaves, che rientrano praticamente in tutti i piatti della cucina locale. Il nome scietifico dell'albero è Murraya koenigji, e le sue profumatissime foglie vengono usate fresche, perché se essiccate perdono quasi tutto il loro aroma. Base del Masala (la mistura di spezie più o meno piccanti che tutte le massaie indiane preparano in proprio), le curry leaves accompagnano tutto il viaggio in Kerala fino a Cochin, la capitale dello stato che racchiude una bella città antica eretta in parte dai portoghesi e che prende il norme di Fort Cochin. Sul porto si ammira il tramonto che si infiltra tra le maglie delle reti delle bilance, con il sole che le percorre velocemente fino a tuffarsi di nuovo in mare. E allora non resta che acquistare un po' di gamberi e qualche buon pesce e rivolgersi all'Holy Dutch, che cucina quello che tu gli porti. Arriveranno vassoi colorati accompagnati da profumi penetranti: in bocca all'inizio sarà il fuoco, ma dopo tutto si placa, lasciano spazio alle sensazioni che provengono da un'altra dimensione, quella che solo la costa del Malabar sa donare. La mitica costa delle spezie che in passato ha visto approdare migliaia di navi che ripartivano cariche di profumi, destinate a qurgli stessi europei che oggi vi approdano
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La Malvasia di Lanzarote

4/18/2012

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Lanzarote è la più orientale delle Canarie, le "isole fortunate" come le chiamava Plinio. Fortunate perché qui il clima è favorevole tutto l'anno, e le temperature non scendono quasi mai sotto i 20 gradi. Ma Lanzarote, oggi Riserva della Biosfera, non è stata un'isola fortunata, perché tra il 1730 e il 1736 è stata teatro di sconvolgenti eruzioni vulcaniche che ne hanno stravolto l'aspetto fisico. "La terrà si aprì improvvisamente vicino al Timanfaya. Nel corso della prima notte, un'enorme montagna si elevò dalle viscere della terra, delle fiamme scaturirono dalla sua sommità, e continuarono a bruciare per 19 giorni": così il curato del villaggio di Yaiza racconta la prima eruzione verificatasi il primo settembre del 1730 alle nove di sera. Dopo sei anni di incessante attività vulcanica, l'aspetto dell'isola non era più lo stesso, e la fertile vallata della Geria - un tempo ricca di alberi da frutto e di grano - si era trasformata in una grande distesa nera, brulla e lunare come tutte le terre cosparse dalla lava. Ma l'uomo ha saputo trasformare la tragedia in nuova fonte di ricchezza, perché ben presto si capì che i piccoli granelli di pomice nera lasciati dalle eruzioni avevano una straordinaria capacità di trattenere l'umidità. A Lanzarote piove pochissimo, e la porosità dei resti lavici erano in questo senso una sorta di manna. Fu il vescovo Don Pedro Davita y Cardenas il primo a intuire che la vite avrebbe potuto rappresentare la nuova coltura della valle della Geria, e fu lui a fare impiantare le prime piante di Malvasia. Ancora oggi la vite è praticamente l'unica coltura presenta nella valle, e i vigneti sono di una bellezza sconvolgente, come tutta l'isola del resto. Le piante sono messe a dimora in buche circolari e tenute basse per poter usufruire al massimo dell'umidità trattenuta dai granelli di pomice. Le buche sono poi protette dagli Alisei, che qui spirano molto forte, per mezzo di muretti a secco. Nessun tipo di meccanizzazione è possibile in questi vigneti così difficili da mantenere, e la vendemmia, che avviene nella prima metà di agosto, comporta non poche difficoltà, visto che i grappoli (come si vede bene dalla foto) sono al livello del terreno. La produzione è molto calata a partire dagli anni Novanta, e i vini si possono reperire praticamente solo nei ristornati e nei negozi locali. Recenti studi hanno dimostrato che la Malvasia di Lanzarote e quella di Sitges, in Catalogna, sono le due uniche vere varietà di Malvasia presenti in Spagna. Quella di Lanzarote di distingue da quella catalana per la foglia più piccola e il grappolo più spargolo e per il sapore estremamente varietale. Nel 1994 la Malvasia di Lanzarote ha ottenuto la denominazione di origine, ma i viticoltori sono preoccupati per il futuro di questo piccolo gioiello dell'enologia nazionale che avrebbe bisogno di essere protetto. Le produzioni sono molto basse e si aggirano sui 1500 chili per ettaro e la crescente siccità mette a dura prova la volontà dei viticoltori che non intendono abbandonare i vigneti. Dovremmo ringraziarli per quello che stanno facendo, perché se c'è un paesaggio umano che vale la pena di vedere una volta nella vita è proprio questo: un'isola struggente, dei vigneti al limite dell'eroismo e un vino secco semplice e minerale che apre il cuore
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Lo scoglio di Afrodite

4/17/2012

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Mi avevano detto che non faceva nessun effetto, e invece non era vero. Del mio viaggio a Cipro senza dubbio è l'immagine che ricordo più spesso e con maggiore affetto. Ero con il fotografo Stefano Cellai, in un viaggio organizzato così male che abbiamo perso tanto tempo a scovare i luoghi dei quali avevamo bisogno per il mio articolo su "Cucina & Vini". Ci siamo trovati da soli le cantine e i produttori da visitare e intervistare e a volte l'arrabbiatura superava il piacere dell'essere in un'isola mitica e di respirare la medesima aria che aveva visto la nascita della grande dea. E poi, a un certo punto, eccolo lì lo scoglio dove Afrodite era approdata materializzandosi dalla spuma del mare. Per me, un tuffo nel mio passato di studentessa universitaria sempre alle prese con gli dei greci per poter capire le poesie di Gabriele d'Annunzio. La "linea greca", così l'aveva chiamata lo studioso Emilio Mariano, che da Leopardi a Foscolo aveva portato direttamente a d'Annunzio. E io ero lì, di fronte al miracolo della nascita di una dea con la quale tutti i giorni dobbiamo confrontarci. L'amore: questo mistero che per fortuna nessuno ha ancora svelato nonostante le tante bizzarre ricerche in atto nei laboratori, dove i ricercatori (normalmente del mondo anglosassone) si affannano a cercare di capire quali meccanismi chimici entrano in campo quando tutto ad un tratto ti batte forte il cuore di fronte a un lui o a una lei che mai avevamo visto prima. Lascio volentieri a loro l'idea di voler capire e io mi attengo al mito di Eros e Psiche, lasciando intatta la magia del batticuore senza inutili valutazioni chimiche. Lo scoglio è là proprio a insegnare questo: la vita di oggi ci costringe a capire già così tante cose che almeno l'amore possiamo permetterci ancora di viverlo con la pelle. Andate a vederlo questo scoglio solitario e ripensate a Botticelli o a qualunque altra rappresentazione di Afrodite e Venere, e capirete che la questione dell'amore è di per se stessa solitaria, perché è personale e sempre unica anche quando si rinnova.
Poi, in qualunque ristorante delle vicinanze, ci sono sempre i polpi alla griglia, le coloratissime insalate ricche di sapori e i vini bianchi locali che daranno anche un senso enogastronico al viaggio. Ad Afrodite la pelle, al polpo la gola.
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L'anima del Prosecco.

4/16/2012

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Per comprendere un prodotto bisogna carpirne l’anima, e quella del Prosecco se ne sta tutta in quel suo territorio che fino a circa 3 decenni fa era ben lontano dall’attuale contesto economico e sociale. La fortuna del Prosecco è iniziata negli anni Ottanta, ma fino ad allora questa era rimasta una terra marginale, ben lontana dai fasti di altri angoli del Veneto, dal mare alle Dolomiti. “Qui non c’erano né le montagne di Cortina né il mare Adriatico, e tanto meno le bellezze di Venezia. Qui non ci veniva nessuno, se non per sbaglio”: in questa maniera gli abitanti ricordano quello che accadeva nel territorio trevigiano fino a tutti gli anni Settanta. Qualche sparuto nord europeo ogni tanto ci si fermava per una notte lungo il proprio itinerario che lo avrebbe portato più a sud in Italia, ma non c’era possibilità di immaginare un turismo organizzato né tanto meno un enoturismo a giro per cantine e in cerca di Prosecco. La collina di Cartizze, oggi stimata in circa 2 milioni di euro a ettaro, era talmente ripida che nessuno voleva coltivarla. Riceverla in eredità era considerata una sorta di disgrazia, e non a caso chi possedeva piccoli o piccolissimi appezzamenti di terra sulla collina di Cartizze li lasciava in eredità alle figlie femmine, oppure al figlio più “semplice”, quello meno brillante e meno promettente. A pensarci adesso sembra incredibile ma era così.
Poi nel giro di 30 anni è tutto cambiato. Le persone che abitano questo territorio hanno smesso di andare all’estero a cercare lavoro e oggi godono di una ricchezza che proviene in parte preponderante dal vino. Qui le persone ormai non aspirano più a comprare un appartamento con doppi servizi e ampia terrazza, perché l’aspettativa di queste persone è la “casa”, singola e rigorosamente circondata da giardino.
Ma gli anni duri hanno lasciato a queste persone una gran voglia di raccontarsi, e un sorriso aperto per farlo. C’è chi si è inventato l’Osteria senza l’oste, proprio sulla collina del Cartizze, dove le persone trovano la porta aperta, un listino prezzi, tante buone cose da mangiare sui tavoli che si affacciano sulle vigne e una semplice cassettina dove mettere il denaro. E c’è chi ha chiamato il proprio Prosecco “. G”, (da leggersi “punto g”) ad ammiccare al fatto che si tratta di un vino prodotto da due donne. Insomma, qui c’è ancora voglia di essere creativi, di essere allegri e ironici pur lavorando sodo e non tirandosi mai indietro.
Lo stesso vale per l’ospitalità: qui si mangia bene e si trovano alberghi estremamente ospitali a prezzi ben diversi da quelli offerti, per esempio, dalla mia amata e tanto cara Toscana. E poi magari trovi anche la sorpresa che il wi-fi à gratuito come pure le consumazioni del frigo bar.
Insomma, questo vino spumeggiante che furoreggia in tutto il mondo all’ora dell’aperitivo, che in molti ristoranti di alto livello viene scelto per aprire il pasto in compagnia dell’immancabile amuse bouche, che dà allegria e che ha saputo parlare al mondo dei giovani anche grazie a prezzi non elevati è nato da tempi duri, da un lembo di terra rimasto a lungo marginale e da gente che pur essendo spesso costretta a emigrare per trovare lavoro non ha venduto la terra. Quella stessa terra che oggi vale una fortuna, visto che dà origine a bollicine ricercate in tutto il mondo.
C’è da augurarsi che queste persone che ci hanno regalato un Prosecco così buono e così facile a bersi senza prima doversi leggere il manuale delle istruzioni non si lascino prendere la mano dal buon andamento del mercato e continuino a lavorare con questa tenacia e con quel sorriso che mi ha assolutamente conquistata durante in mio viaggio tra Valboddiadene, Vittorio Veneto e Conegliano.


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Primo post!

4/16/2012

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